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Aporie-Testata

Luogo di nascita di importanti poeti e sede di numerose gare documentate da Sarego 1987 e da Emilio Fonzi (Fonzi 1953, Fonzi 1954).
Si riporta la descrizione della gara di Preta dell’agosto 1953 tratta da Fonzi 1954: 19-31, in cui sono ricordati i poeti concorrenti, le modalità di svolgimento, i premi, i temi dati. Di particolare interesse sono i vari riferimenti alla presenza delle stenografe come figure previste dagli stessi organizzatori della gara e il passo in cui i Moschettieri di Poggio Cancelli si rifiutano di prendere parte alla competizione perché la gara non prevede la ripresa della rima lasciata dal poeta precedente. Se ne deduce che l’obbligo di rima non era una consuetudine condivisa da tutti nei primi anni Cinquanta; l’autore infatti definisce quella dei Moschettieri una “incredibile proposta”.



Emilio Fonzi all’epoca era stato confermato Segretario generale di tutte le gare dal Consiglio della Società “Il Tronto” e pertanto aveva il compito di contribuire all’organizzazione. Per essere più efficace, aveva mandato inviti in ottava rima, scritti da lui, a poeti, ospiti e paesani residenti a Roma. Tra gli invitati erano presenti anche poeti di Viterbo e di Vetralla, i quali tuttavia dovettero declinare l’invito: “Dei poeti, i più solleciti a rispondere furono quei di Viterbo, fra i più forti d’Italia: ma i loro capeggiatori, gli amici vetrallesi Carlo Bigioni e Piero Aquilani, vecchio ‘letterato’ e ‘scrittore di vaglia’ il primo, geniale poeta il secondo facevano intendere che all’ultimo momento avevano dovuto rinunciare al lungo costoso viaggio da Viterbo a Preta, per mancanza di benzina o, meglio, di grana per comprarne. E l’oste Zoppa, il generoso benefattore del nostro poeta Antonio Valle e compagni, risultava, a Vetralla, morto da un pezzo, senza lasciare ad alcun erede le sue splendide virtù mecenatiche” (Fonzi 1954: 14).

A Preta
di Emilio Fonzi
da Le gare poetiche del cinquantatre, Preta, Associazione poeti estemporanei “La Truentina”, 1954, pp. 19-31
Il primo degli ospiti cari a giungere fra noi fu l’on. Berardinetti, solo, ma accompagnato da una grande fulgidissima coppa per i nostri poeti, per i suoi poeti. La bella novità, la grande sorpresa ci commosse nel più profondo dell’animo. Il prezioso inobliabile dono ci veniva a compensare abbondantemente di tutti gli altri “piccioletti doni” che erano venuti in genere a mancare. Come potremo mai, onorevole, dimenticare la tua semplice generosità, la tua squisita gentilezza? Notiamo ancora: Emidio Santarelli, semicittadino di Preta e sempre generoso amico dei nostri poeti; Pietro Paolo, già assessore anziano ed ora soltatno giovane al nostro Comune, ancor tanto giovane da poter impalmare una ventenne fanciulla, da avere dinanzi a sé un buon mezzo secolo di vita da dedicare alla pubblica cosa.
Verso l’ora di pranzo si segnalano i primi arrivi dei poeti: (inutile dire che [il] « poeta » di Capricchia  si era presentato si dalle ore antelucane, abbandonando le sue bestiole al pascolo, per trovarsi puntualissimo e serenissimo alla gran giostra). Ecco i rossignoli di Leonessa, circa una dozzina colle loro mogli e fanciulle. Ah Gigino Gigino, che te la sei fatta fare dai Leonessani! Tu che quando, tanti anni fa, nell’ora del supremo cimento, andavi stringendo fra i pugni quella tua freddissima bacchetta magica come per sostenerti, ispirarti, e non pensasti che occorre stringersi al petto il tenero corpo della fanciulla amata o quanto meno ricercare tra la folla i suoi occhi lucenti, per far salire su, direttamente dal cuore alle labbra, dei versi veramente divini. Ecco i trovadori di Mascioni, non meno di una mezza dozzina, semplici e rudi, fierissimi, che reclamano una fine mensa odorosa come comporta il loro altissimo rango. Ecco Geremia Rosi, tornato apposta da Roma per la gara, senza nemmeno passare per il suo paesello.
A tutti apparecchiamo un suntuoso pranzo con varie zuppiere ricolme di fumanti spaghetti alla matriciana.
Senza nemmeno finire il pranzo, la gente si va riversando nella piazza della gara ove, lungo l’imponente palco, si vedono spiccare, in tre posti distinti, tre cartelloni a caratteri cubitali: GIURIA – STENOGRAFI – SEGRETERIA. Le iscrizioni dei poeti sono aperte e gli uffici di segreteria sono in piena attività. Si segnalano intanto altri arrivi di poeti: ecco il poeta Scarucina, misero e tapino a cui siamo costretti pagare la tassa d’iscrizione per non privarci del suo canto speciale; ecco Pietro Pulcini il lucherino di Capitignano, tutto sudato e affannato per lunga strada scabrosa – per «monti e valli» – ma tuttavia grassotto e rubicondo come un pollastrozzo nutrito al miglio; ecco le squadre di Terzone e di Cornillo coi loro vecchi e giovanissimi campioni che vorrebbero sempre fare onore ai loro paeselli canori, ai loro gloriosi antenati, ma restano un po’ tremolanti per l’immancabile arrivo di forti “potenze” ignote. Ecco Gigino, non più come dieci anni fa, “passerotto spennacchiato miracolosamente scampato alla bufera” bensì aquilotto dai ferrati artigli, dalle robuste penne; ecco infine i famosi Moschettieri di Poggio Cancelli, i più attesi, i più festeggiati fra tutti. Ma essi ci appaiono subito un po’ freddi, alquanto annuvolati. Che c’è, che non c’è? Ecco: costoro, paventando ingiustamente paesani soprusi, pretendono di cantare col sistema “a ripresa” in cui cioè ogni cantore deve riprendere la rima lasciata dal suo predecessore. E se costui lascia una rima impossibile a riprendersi? O soltanto troppo aspra e inadeguata al soggetto delicato che si deve svolgere? L’incredibile proposta viene naturalmente respinta dai responsabili della gara e così, dopo vario giostrare, i Moschettieri abbandonano clamorosamente il campo. Al gran rifiuto dei poeti poggiani eravamo già abituati poiché, ad una bella gara entro il loro stesso paesello, essi, chissà perché, si ritirarono capricciosamente sotto la tenda guastando quasi la festa, suscitando tutte le ire dei Mascionari che in un canto serrato li rampognarono acerbamente. Il loro precipitoso abbandono sinceramente ci dispiacque poiché il nostro canto, privato della loro nota gentile, risultò certo un po’ stonato. Ma ogni organizzazione che si rispetti è retta da precise norme che bisogna assolutamente osservare sotto pena di clamoroso fallimento. Pertanto, fra i tanti argomenti che potremmo qui addurre per dimostrare la nostra ragione come il loro torto, ne segnamo appena due:
1) Noi possedevamo un regolamento della gara, redatto in cinque articoli ciceroniani dall’espertissimo segretario e tale regolamento, depositato in Segreteria, era stato approvato e sottoscritto, all’atto dell’iscrizione, da tutti i poeti concorrenti, compresi i Moschettieri. Ora, anche i barbari capiscono che noi non potevamo assolutamente lasciarci imporre un altro regolamento o anche solo cambiare un articolo del nostro, da parte di un solo gruppo di poeti interessati. La serietà e dignità della nostra organizzazione ne veniva irrimediabilmente compromessa e, d’altra parte, si capisce che ogni altro poeta o gruppo di poeti avrebbe potuto logicamente accampare lo stesso diritto chiedendo la soppressione, la sostituzione o l’aggiunta di altri articoli ed allora si entrava in piena anarchia.
2) «La poesia – l’abbiamo scritto sul frontespizio di questo libricciolo – è il linguaggio degli angeli, il canto è l’armonia cieli». Ebbene, noi che un tale linguaggio parliamo continuamente in cuore, non potevamo permettere che proprio sotto i nostri occhi, per nostra complicità, questa grande Dea venisse talmente abbassata alla terra da farne un servetta da trivio o da bettola, da asservirla alle losche camorre degli uomini, da prostituirla insomma a calcoli bassi, egoistici, bottegai. Sappiamo [sic per sappiano] i Moschettieri, lo intendano tutti i loro sostenitori e seguaci, che se la libertà è indispensabile ad ogni essere vivente, essa fa tutt’uno con la poesia, specie se si vanno a considerare le ultimissime produzioni novecentiste ove la rima quasi non si conosce più e la libertà del verso va, purtroppo degenerando in licenza.
Ed ora, continuiamo tranquillamente. Verso le ore 15 la giuria – le stenografe erano già al loro posto – s’insedia ufficialmente sul palco. Questa giuria non poteva essere più seria e agguerrita. Presidente: il prof. Ferrazzi, ex-accademico di Italia, il cui grido di grande pittore non oscura affatto il vanto di eccellente poeta dilettante. Membri: l’On. Bernardinetti, squisita anima di poeta, che per essere venuto dal popolo, per trovarsi bene soltanto fra il suo popolo lavoratore, conosce le più segrete pieghe dell’anima popolare; il prof. Cobino, preside delle scuole medie di Amatrice, critico d’arte finissimo; il prof. Tilesi, direttore didattico delle scuole dell’urbe e che per essere stato già, per molti anni, direttore delle scuole del circolo amatriciano, conosce questi nostri poeti sin dai banchi della scuola. Persino nelle vene azzurrissime delle gentili stenografe scorre sangue di Polinnia: Maria Cherubini di Preta, pronipote del poeta Franco Cherubini, che va fierissima di portare non solo il nome ma anche il cognome dell’eroica moglie dell’artefice michelangiolesco Cola di Amatrice, immortalata dal Vasari; Assunta Di Carmine di Cornillo Nuovo, pronipote del celeberrimo poeta Emidio Crisari, nipote di Giuseppe Di Pietro e figlia di Divinangelo, ambedue poeti di buona razza, di chiaro nome. E ancora, a parte il carattere tutto bernesco del segretario, anche i due sottosegretari aggiunti – il Dott. Peppino Minozzi e l’enciclopedico Toto Piccari – avevano, come Renzo una “certa vena” poetica. Anche nell’animo signorile del presidente della “Tronto”, Sig. Giuseppe Cherubini, echeggiavano ed echeggiano tuttavia, le più alte armonie dei cherubini del cielo. C’era infine, quale consigliere saggio, Serafino Minozzi, autodidatta insonne e poeta d’antico sangue. Presenziava persino il tipografo Morara, venuto apposta da Roma per assistere di persona al gran successo editoriale del nostro primo libriciolo sulle gare poetiche uscito pei tipi della sua Casa, fierissimo di aver avuto l’unico privilegio di stampare questo libro raro, tutto ansioso di poterne stampare ancora degli altri, sempre più elegantemente, sempre a minor prezzo! E su tutta la complessa organizzazione stendeva le sue grandi ali paterne il nostro P. Minozzi, anima e vita delle nostre gare, nel cui amplissimo cuore – tutti lo sanno – freme e biancheggia ininterrottamente un mare di poesia. Dunque un vero piccolo Parnaso.
Prima di chiudere le iscrizioni, rivolgiamo tutti un ultimo caldo invito ai poeti di Preta perché si facciano vivi; ma ci fanno ora sapere, in grande segreto, di voler rinunciare dal partecipare alla gara per lasciar più libero il campo ai colleghi forestieri, ospiti carissimi. Il gesto cavalleresco, degno delle nobili tradizioni di Preta, viene variamente commentato, altamente apprezzato dall’anime più generose.
Alle ore 16 precise il segretario dichiara chiuse le iscrizioni e aperta la gara. Egli quindi dà lettura in pubblico dei più salienti articoli del regolamento, annuncia i premi in palio – L. 110.000 da distribuire fra i primi cinque vincitori – il diploma dorato ai medesimi e a ciascun concorrente, ai vari membri della giuria e della segreteria l’omaggio del suo attualissimo ed elegantissimo libricciolo Le nostre gare poetiche che egli (tra parentesi) raccomanda a tutti gli spettatori di comprare per potersi almeno rifare dei numerosi omaggi gratuiti... Intanto la segreteria ha già redatto l’elenco dei poeti iscritti e imbussolato nell’apposita urna per essere tirati a sorte, i loro onoratissimi nomi. L’elenco completo viene trasmesso al segretario che fa l’appello: quelli che risposero “presente” potevano essere una trentina, quanti erano i bravi dell’Innominato.
Nell’assegnazione dei temi la nuovissima giuria escogitò un sistema nuovo, un sistema a cui, nei nostri vent’anni di segretariato, non avevamo mai pensato. Ciascun giudice prescelse separatamente un proprio tema segnandolo su un bigliettino che, debitamente ripiegato, intromise poi di sua mano entro l’argentea capace coppa: la quale il segretario tolse delicatamente ed elevò solennemente come un calice consacrato davanti quel mostro dalle mille teste ch’è la bizzarrissima folla e quindi, dopo averla violentemente agitata, portò davanti a una qualunque piccola bimba perché ne estraesse, con le sue bianche manine, un solo quadratino di carta. L’importante operazione fu compiuta naturalmente sotto i seimila occhi apertissimi delle tremila persone che gremivano la piazza, in faccia alle sessanta pupille ardenti dei trenta poeti interessati – Moschettieri, venite a specchiarvi! –  alla luce del sole.
Il primo tema sorteggiato fu: «il riposò del pastore in sul meriggio».
Ancora una volta la sorte aveva favorito i poeti disgustando un po’ gli spettatori tutti ormai arcistufi di temi pastorali. E tutti quei cantori-pastorelli (per lo più) si lanciano entusiasticamente, giovanilmente all'attacco del caro tema, a mano a mano che essi vengono sorteggiati e chiamati alla ribalta. Il canto così si inizia vivo, serrato, interessante. Il pubblico segue· con affannosa ansia, con religioso silenzio. Non uno fiata, non uno respira durante il grave debutto. Dal nostro posto d'osservazione in cima al palco, noi, riguardando attoniti quella marea di gente, non scorgevamo che orecchie dritte, occhi e bocche spalancate, visi contratti, corpi e teste protese verso la soave bocca del cantore di turno donde uscivano sì densi flutti di poesia. E poi ci si viene ancora a dire che le gare poetiche non sono intese dalle folle!
Tuttavia, sin dalle prime battute ci dovemmo accorgere che quella sospirata tiepida giornata non era particolarmente favorevole ai nostri poeti. Il loro canto, tutto il loro canto non s'impennava, come di consueto, in arditi voli aquilini, non usciva propriamente dalla normalità. Le ripetizioni di luoghi comuni, di versi vecchi erano frequenti, immagini e concetti nuovi non apparivano che raramente. Senza dubbio le burrasche dei giorni scorsi avevano annebbiato e innacquardito alquanto i cervelli di quei poeti e oramai nessun riparo vi poteva più fare la gente. E quel pallido raggio di sole che dietro i nostri fervidissimi voti si era finalmente deciso a splendere sul nostro spettacolo, non solo non riusciva a riscaldare la vena dei nostri frigidi cantori, ma esso veniva quasi maledetto dai nostri valenti fotografi – da D. Giacomo a Fulvio – perché splendendo nel senso opposto da essi voluto, impediva loro di scattare le più belle istantanee. Così va il mondo o, meglio, così andò in quella singolarissima giornata.
Anche il diverso ornamento del palco dovette notevolmente influire sullo animo dei cantori. Così, mentre sedici anni fa i «frondosi rami di quercia secolare» valsero a ispirare nei poeti quei versi originali e forti che tutti portano scolpiti in cuore, gli attuali tenui ramoscelli staccati dai germogli spuntati appena sui vecchi ceppi, non potevano non ispirare che versi teneri sì ma non proprio freschi e piuttosto dubitanti, fragilissimi.
Cercammo più che mai di tener d'occhio tutti i poeti: i vecchi campioni e i nuovissimi, i paesani e i forestieri. I Rossignoli leonessani si facevano volentieri perdonare il poco verso coltivato colla loro cadenza solenne, elegiaca, che pareva provenire da profondità abissali, da lontananze misteriose, che faceva dolcemente addormentare i cuori. I Trovadori mascionari avevano forse subito una forte indigestione di spaghetti pretarelli che aveva notevolmente abbassato il tono del loro canto, già sì gentile e nostalgico, ed ora zoppicante, sonnolento, poco sostanzioso. I Paladini trionari e cornillari facevano sforzi sovrumani per superarsi, per brillare, ma spesso anche essi ricadevano a mezzo volo. Gigione, più degli altri, aveva ritrovato la sua vena giovanile. Il Lucherino con la sua voce gorgogliante, col suo strascico carezzevole, a celare e a colmare le piccole lacune del suo verso precipitoso. Il Cigno vocetano, tutto intento a cogliere il pieno getto alla fonte pegasea, non s’accorgeva che veniva via via intorbidando «l’acqua che zampilla dalla frana». Bisogna riconoscere che la nota più originale in questo primo tempo della gara fu portata proprio dal poeta Scarucina – il meno calcolato – il quale, mentre tutti i suoi colleghi, chi più chi meno, fecero pensare il buon pastore alla sua bella lontana, gliela fecero sospirare e sognare, egli, dopo una lunga pausa sul palco intonò una bizzarrissima ottava tutta bernesca così chiudendola:

Mentre il pastore mangia la polenta,
pensa alla moglie e con chi s’addormenta!

Ma fra tanti diversi cantori, con un soggetto così facile e così altamente poetico, i versi belli non potevano mancare ed infatti non mancarono. Sentite:

Batte il sole sui prati con ardore,
riverbera sui sassi e sui ruscelli:
è l’ora di fermarsi e il buon pastore
chiama a raccolta pecore ed agnelli;
poscia si adagia con acceso amore
e si abbandona ai sogni suoi più belli:
mentre lontano un canto di cicale,
par che lo culli come un frullo d’ale.
(Luigi D’Angelo)

Pastor che sogni mentre il sol tramonta
una carrozza d’oro inghirlandata...
.......................................................
il fiume passa accanto e ti racconta
che tutto a un tratto ti toccò una fata.
ti volgi e stringi a te, maledizione!·
soltanto il vecchio muso del montone.
(Mimmi Blasi)

Nella montagna dal sole affocata,
che spazzò via il fresco mattutino,
vedendo la sua greggia addormentata,
anche il pastore schiaccia un sonnellino;
pensa nel sogno alla sua donna amata ,
che lasciò nella valle al suo paesino:
s’agita in sogno l’anima amorosa
e pensa al dì che la farà sua sposa.
(Celestino Ciaralli)

Ogni pecorella s’è accallata
ed il pastore sotto la frescura
dorme e sogna la sua innamorata
e pensa ai versi della sua natura;
o montagna da me sei tanto amata,
il sol, la pioggia non mi fa paura:
perché si sente in petto tanto amore,
unito alla sua greggia il buon pastore.
(Luigi Plini)

Dopo la gran frescura mattutina,
verso il meriggio il tenero pastore,
agli alberi, al piante s’avvicina,
con la greggia egli ci fa all’amore;
sempre una storia egli porta vicina
e canta questa volta a Tersicòre:
e mentre sotto il faggio si riposa,
fa i sogni belli e pensa alla sua sposa.
(Leonardo Pulcini)

Giace il pastore sotto la frescura
d’antichi faggi, accanto ai cari agnelli;
la mente sua affonda alla lettura
dei versi più gentil, soavi e belli;
pare che lo festeggi la natura
e quel canto gli ridesta in cuore,
l'ardente fiamma d'un tenero amore.
(Virgilio Di Carmine)

Non appena l’ultimo poeta ha finito di cantare, la giuria si raccoglie tutta in se stessa per fare la media dei voti assegnati da ciascun giudice separatamente per ciascun poeta, onde addivenire ad una prima eliminazione di quei poeti che avessero riportato un voto inferiore ai 6/10 (Art. 1-3 comma del regolamento). Dopo una mezz’oretta di simile lavoro, il presidente Ferrazzi consegna al segretario Fonzi l’elenco dei poeti eliminali e di quelli rimasti in lizza, elenchi che costui passa silenziosamente alla segreteria per i lavori di sua spettanza. Per un senso di fine delicatezza poetica, si pensò bene di non stare lì a spiattellare al pubblico i nomi dei perditori né quelli dei vincitori che solo si sarebbero conosciuti a mano a mano che venivano sorteggiati.
E qui il primo tempo della gara può considerarsi chiuso.

Il secondo tempo si apre con l'annuncio del secondo tema prescelto dalla giuria: «Temporale in montagna». Tema bello e nuovissimo anche se di palpitante attualità. Versi interamente temporaleschi, fulminanti, uscirono questa volta dai petti turgidi di quei cantori montanari ancora inzuppati e agghiacciati dal recentissimo e violentissimo temporale. Altro che i beati riposi del buon pastore in sul meriggio, i suoi sogni d’amore e di pace all’ombra «di una pianticella», fra squilli di ciaramella e canto di cicale! Udite, udite, o concittadini:

Sopra le bianche vette il vento spira,
fra nere nubi il sol fa capolino;
per le pendici il turbine s’aggira,
va intanto il pastor solo e meschino;
il tuono mugghia e comunica l’ira
del folgore violento e repentino:
la pioggia si riversa in ogni calle,
poi torbida e sonante scende a valle.
(Pietro Pulcini)

Dopo la canicola rovente
che spacca il suolo e soffoca i rumori;
arriva il vento ed impetuosamente,
porta le nubi cariche di umori;
ma il monte sopporta eroicamente,
della natura i scatenati orrori:
soltanto il faggio dal vento schiantato,
lungo il torrente via viene portato.
(Celestino Ciaralli)

Temporal di montagna che improvviso,
sorgi ad un tratto, esci da ponente:
di questo monte mi nascondi il viso,
l’ingrossi tu il ruscello ed il torrente...
(Mimmi Blasi)

Scroscia la pioggia e i lampi furiosi,
guizzano sopra i monti annuvolati;
pari di sentire un pianto di marosi,
veder quegli elementi scatenati;
l’acqua cerca i sentieri misteriosi...
(Luigi D’Angelo)

La seconda ed ultima eliminazione fece fuori quei poeti che avevano riportato un voto inferiore ai 7 /10 lasciando in lizza il fior fiore dei concorrenti. E il terzo tempo brillò con un tema alato: «La rondine».
Questo tema era veramente un po’ vecchiotto poiché ad una altra gara lontana avevamo assegnato almeno una buona metà di esso «Tornano le rondini».
E in verità la stragrande maggioranza di quei poeti, benché improvvisassero tutti o quasi tutti dei versi gentili, alati, non seppero cantare che il solo ritorno della rondinella, non seppero uscire dal luogo comune di far annunciare dalla classica messaggera il ritorno della primavera, coi suoi canti e coi suoi fiori. Fu Antonio D’Angelo a rompere decisamente l'incantesimo facendo squillare in quell’aria grigia un’ottava veramente tutta primaverile:

L’innamorata della massa pura,
l’innamorata dell'immenso cielo,
ama la piana come ama l'altura,
teme una cosa sol, teme lo gelo;
quando da noi si spegne la calura,
e il fiore si ripiega su lo stelo,
ella parte e saluta la scogliera,
va alla ricerca d’altra primavera.

E Celestino, pur attardandosi troppo a descrivere il ritorno di «una timida e solinga rondinella» ci fece levare gli occhi al cielo chiudendo la sua ottava con una celeste immagine:

...Noi la sentimmo e il gaio cinguettio,
ci ricondusse più vicini a Dio.

Gigino ricalcò in forma classica i concetti non nuovi della rondinella annunziatrice lieta non solo della primavera, ma anche del sole preso giù in terra straniera, anche portatrice della favella del mare.

Mi viene incontro con sue dolci ale,
verso la sera e dice: «Ave Maria»,

gorgheggiò il rossignolo Leonardo Pulcini con una tale dolcezza e commozione che certamente anche Dante ed Aroldo, se fossero stati presenti, avrebbero non solo curvato la fronte ma si sarebbero altresì scoperto il capo, se pur l’odierna moda delle persone intelligenti non li avesse già obbligati a scoprirselo da un pezzo.
Infine il vecchio Gigione che sicuramente non conobbe mai Tommaso Grossi e tanto meno il Tremacoldo e che quando canta sbatte le labbra e serra gli occhi come il gallo, quasi per meglio assaporare tutta la dolcezza del verso, intonò un canto profondamente nostalgico:

O dolce rondinella pellegrina,
che da ’sto suolo te ne vai lontano...

Con la chiusura del terzo ed ultimo tempo la gara si poteva considerare finita e si era ora in ansiosissima attesa del supremo verdetto della giuria, già tutta intenta ai suoi ultimi lavori. Invece, dopo poco tempo, vedemmo l’avv. Bernardinetti affacciarsi sul palco per annunciare al pubblico che la giuria, avvalendosi della facoltà concessale dell’ultimo comma dell’art. 1 del regolamento, aveva deciso di far cantare ancora un’ottava ai tre poeti giudicati migliori – Luigi D’Angelo, Celestino Ciaralli, Antonio D’Angelo – su un nuovo tema patriottico: «Preta all’Italia».
La cosa rallegrò e rattristò alquanto i tre vincitori che tuttavia si disposero gravemente a svolgere l’ampio tema difficile. Celestino di Castel Trione, il più vecchio materialmente e moralmente alla patriottica Preta, brillò sopra gli altri:

Per bocca del suo umile cantore,
Preta ti saluta, o Italia bella;
accorsero i tuoi figli al tricolore,
quando ti sconvolse la procella;
se della guerra ritorna l'orrore
Preta sarà la vecchia sentinella:
e in tempo di pace con decoro,
difende la sua Italia col lavoro.

E la classifica dei vincitori risultò così formata: 1° premio di L. 50.000 a Celestino Ciaralli; 2° di L. 30.000 ad Antonio D’Angelo; 3° di L. 20.000 a Luigi D’Angelo. Premi d’incoraggiamento di L. 5.000 ciascuno: 1° a Geremia Rosi ; 2° a Pietro Pulcini. A tutti i vincitori i relativi diplomi firmati dai quattro giudici.
Assegnati i premi, fatti i dovuti applausi ai vincitori, l'On. Bernardinetti prese la parola per salutare commosso il buon popolo della montagna, per ringraziare i cari poeti per aver fatto trascorrere a lui, a tutti, una giornata indimenticabile, assicurando tutto il suo ausilio per altre gare sempre più grandi, sempre più belle, «perché l'Italia – concluse – si onora e si difende coll’arte e col lavoro».
Infine l'incorreggibile segretario non poté resistere dall’improvvisare anche lui il suo bravo discorsetto e mentre si era proposto assennatamente di raccomandare al pubblico, al comitato festaiolo, alla giuria, il suo prezioso e costoso libricciolo, uscito fuor senno per questo nuovo strepitoso successo del suo segretariato, se ne usci a dire che «Preta era ormai famosa nel canto non solo in Italia, non solo, nel mondo, ma – con la morte di Bertacchi e del Moschettiere Paolo De Angelis – anche nell’altro mondo».
Tutti gli improperi, gli strilli, i fischi e, quasi anche le legnate, già in tutte le precedenti gare riservate alle giurie, ricaddero questa volta sulle sue povere spalle.