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Aporie-Testata

“Trattoria nostra” o degli improvvisatori
di Ettore Veo

da Osterie romane, Milano, Ceschina, 1949, pp. 117-124.

Al vicolo del Gallo, tra Campo de’ Fiori e Piazza Farnese, c’è la Trattoria Nostra. Non mia, né vostra, beninteso. Nostra, dicono a buon diritto i nativi si Poggio Cancello, residenti a Roma. È una trattoria, dunque, a forma di cooperativa; pulita quanto mai, ariosa e con un certo gusto, tra specchi, marmi e affreschi, direi artistico. Qui si danno convegno, come ho fatto capire, i nati e gli oriundi del paesello abruzzese il quale, nonostante la sua piccolezza, ha un’infinità di figli sparsi per il mondo. Di Poggio Cancello si dicono anche coloro che sono nati altrove, ma di genitori o di nonni però che lì, a Poggio, aprirono gli occhi alla luce. Ed è commovente, davvero, questa comunione di spiriti fraterni tanto più che compagna desiderata di essi è – indovinate un po’ – la poesia.
Pensavo che i poeti estemporanei fossero già nel ricordo di altri tempi, ma m’ingannavo rotondamente. A disingannarmi, ma a farmi piacere nel tempo istesso, venne un mio amico e poeta che ebbe la cortesia di accompagnarmi una domenica, nel pomeriggio, al vicolo del Gallo per farmi assistere ad una gara poetica all’improvviso; gara che riuscì animata e pittoresca.


La prima grande sala della trattoria ha alle pareti due larghi affreschi di Poggio Cancello: panorami del paesello ridente al sole e alla neve. Segue una sala a giardino, prediletta d’estate e, in fondo a questa specie di cortile rammodernato e utilizzato, s’apre la sede dei nostri abruzzesi romanizzati: una camera più lunga che larga, nitidissima, con le pareti dipinte ad imitazione del colore di svariati marmi e pietre. In un angolo, la grande bandiera sociale, accuratamente ravvolta; sulla parete principale un quadro che rappresenta lo stemma del paese: un cancello campestre che s’apre, tra due muriccioli, verso la cima d’una collina tutta verde e sorridente: ai piedi del cancello due cani da pastore: cave canem.
In questa sala, ogni domenica, i poeti estemporanei, o improvvisatori, o a braccio, o d’osteria, intonano le loro ottave o sopra un tema stabilito o a botta e risposta, come viene.
A Poggio Cancello i pastori cantano all’aperto mentre le pecore ondeggiano tra i campi, brucando: cantano i ·paesani specie quando il freddo li rinchiude nell’osteriola: il ceppo ardente nel caminetto antico, e i boccali di vino in fila sul tavolo! Di Poggio Cancello, o di lì provenienti, sono i poeti romaneschi Nazzareno De Angelis, celeberrimo cantante, Antonio Camilli e Ascenzio De Angelis.
Quel giorno che vi andai d’improvvisatori veri e propri ve n’erano tre o quattro e, intorno ad essi e ad un tavolo, moltissimi paesani, non solo spettatori ma critici severi di quei canti nati lì per lì: critica ,che si manifesta in un gesto della mano o nel muover lento del capo, se va benino: deciso, se va male; sussultante, se il poeta l’ha imbroccata in pieno.
Primeggiava per anzianità, fra codesti poeti estemporanei, Capannòla (Emidio Innooenzi). Egli si è misurato con forti campioni della poesia all’improvviso: Er pescatore, Er comparetto e tanti altri che non sono più. Ne può raccontare lui! ma l’antico vigore non è spento e il canto trabocca tuttora dalla sua gola, fluido e sonante. Fu proprio lui che il giorno della mia visita aprì il fuoco di fila. La sua ottava, nella. calorosa tessitura tassiana, invitava gli altri poeti a farsi avanti, se volevano misurarsi con lui.
Sapeva di trovarsi di fronte a cantori di polso, ma il suo polso era fermo nell’attesa. E qui mi dolgo di non conoscere la stenografia.
Queste ottave improvvisate, in italiano e con qualche punta dialettale, con tre rime alternate nei primi sei versi, e con le rime combaciate negli ultimi due, vengono intonate con una cantilena larga e un po’ cupa, perché il poeta possa così, nel prolungamento del tono, aver agio di trovar pensiero e ritmo. Chi risponde è obbligato a chiudere il primo verso con l’ultima rima pronunciata dal predecessore. Mi proverò a riassumere in parte la gara poetica alla quale assistetti.
All’invito di Capannòla, rispose Ascenzio (Ascenzio De Angelis), che aveva sempre concetti fantasiosi e spesso originali nei suoi versi. (Il povero Ascenzio si è spento qualche anno fa). Nella poesia, egli dice, bisogna misurarsi con l’animo aperto e leale, poiché il canto non è il godimento di chi l’intona, soltanto, ma anche di chi l’ascolta. Lo so bene, rispose Capannòla, perché nel cuor mio vibra sempre la melodia di Virgilio, ma il pungere l’avversario vuol dire obbligarlo a superarsi. È certo che la poesia è superamento, rimbeccò Ascenzio, ma era proprio sicuro Capannòla, vecchio maestro a tutti, che qualche volta il suo verso corresse proprio bene?
Io canto da bambino, affermò Capannòla, e conosco l’arte: accetto il tuo omaggio di discepolo nonché di forte lottatore, ma grato ora mi giungerebbe il canto di Donato.
Donato (Donato Sciarra) è tuttora, ritengo, il più colto della comitiva. Conosce i classici e ad essi s’ispira, e se ne sente il taglio nei suoi versi. Il desiderio di Capannòla non fu però appagato perché Donato, scuotendo la testa, fece capire che non si sentiva in vena.
– Guarda, guarda! – ripigliò Capannòla, sempre in ottava rima – il mio prediletto, il poeta dalla voce che c’intenerisce, è muto? Possibile? E come può ammettersi ciò?
– Non credo, aggiunse Ascenzio, che Donato voglia farsi pregare, forse qualche dispiacere ha chiuso momentaneamente la bocca alla sua Musa; ma non canta il poeta anche quando il dolore lo visita?
Donato riscosse la testa, tra il mormorio degli astanti. Ed ecco che una nuova voce intonò un’ottava dal fondo della sala. Era un giovane cameriere (Amedeo Penzi) che, ritirando dei piatti già vuotati, con la sua brava salvietta sulle spalle, ripigliò l’ultima rima di Ascenzio e chiese scusa se lui, piccolo alunno fra tanti grandi maestri si permetteva di osservare che non era degno di Donato il tacere; avesse lui quella voce d’oro!
Capannòla ripigliò concitato e disse che, nonostante il suo affetto paterno, cominciava a pensare che Donato fosse un po’ esaurito. Donato ebbe un balzo ma tacque ancora. Il mormorio degli astanti s’accentuò. Capannòla non si diè per vinto e punzecchiò nuovamente il suo prediletto, ma nella foga dell’improvvisazione una rima gli scivolò via. Pronto Ascenzio gli ricordò che la poesia non meritava queste dimenticanze da parte di Capannòla, che pure ha insegnato a tutti, perché queste trascuranze somigliano a macchie nel sole. Capannòla sciolse la bella ottava assicurando che l’errore gli era capitato per il turbamento prodottogli dall’atteggiamento di Donato.
Il quale, alla fine, si decise a farsi sentire. Bevve due dita di vino, tirò due o tre forti boccate dal sigaro e con voce dolce e pacata ringraziò Capannòla, il leone degli improvvisatori, per la sua affettuosa insistenza, ma s’egli taceva e voleva tacere, ciò si spiegava pel fatto che il suo animo non era sereno.
– S’io son leone, rispose Capannòla, tu sei l’usignolo e questo uccello più è afflitto e più fa sentire alto il suo canto.
– Per cantare con il mio animo triste, intonò Donato, dovrei essere a Poggio Cancello, come i pastori, nella mia campagna divina, solo col cielo.
Il richiamo al paesello lontano scosse tutti gli astanti: non credo di esagerare se affermo che negli occhi di diversi fra quei carrettieri spettatori, che avevano sfidato tutte le intemperie, vidi balenare una luce di lagrime.
E la ·gara continuò nell’esaltazione del bello e del buono, nell’omaggio continuo alla poesia che consola, nell’accenno agli dei che simboleggiano le arti, nell’inno all’Italia, a Roma, al Tevere, alla primavera, ai fiori, alle albe rosate, ai tramonti di fuoco... e, tramezzo ai versi, scoppiettavano punzecchiature garbate e affettuose, commenti e frasi non chiare, a ripetizioni di parole e a qualche maggior prolungamento della cantilena per la ricerca disperata di una rima.
La qual rima è sempre un po’ facile, quando si è tra poeti amici, come quel .giorno: ore, ato, ento, ito. Ma difficile diventa quando gli avversari s’inaspriscono. Una volta un avversario di Capannòla chiuse l’ottava con il nome di Alessandro. Il nostro leone rimase un po’ sconcertato, ma poi si riprese o citando il nome di Alessandro, per la prima rima, com’era in sua facoltà, disse che questi, nato sulle rive dello Scamandro discendeva dal grande Menandro!
Tali asprezze, oggi, veramente, data anche l’esiguità degli improvvisatori, non esistono più, ma un tempo, purtroppo, specie nelle campagne intorno a Roma, esse non erano rare e conducevano anche ad eccessi gravi. E c’è chi ricorda, ancora, la fine tragica di Er Pescatore che volle provarsi, improvvisando, a tener testa a un gruppo di mietitori della campagna romana avvinazzati.
Oggi come ho accennato, la tenzone è cortese e spesso l’invito non è che un seguito di galanterie, soprattutto se si stabilisce in precedenza un tema da svolgere. Temi non facili: la Storia greca, la Storia romana, la vita di Gesù, la vita di Dante, la vita di Garibaldi... Agli episodi storici più comuni s’innestano avvenimenti di pura fantasia, non meno interessanti. Come facessero o come facciano questi improvvisatori a conoscere tante cose non si è mai saputo. E non lo sanno nemmeno i poeti di vicolo del Gallo, che possono dirsi i superstiti di tutta una lunga serie di estemporanei, di cui l’Italia fu sempre feconda. Certo è che non a sproposito intesi citar quella domenica i nomi di Orazio, di Virgilio, di Dante e del Tasso, nume tutelare quest’ultimo dei poeti .all’improvviso.
La gara dei quali si sa quando cominci e non si sa quando finisca: ma si canta soltanto di domenica, però perché negli altri giorni si deve lavorare! E si forma in queste gare tutta un’atmosfera melodica, davvero singolare, e pare che tutti i presenti siano poeti, anche quelli che non aprono bocca. Io stesso, ad un punto, quel giorno, stavo per intervenire nella mischia canora, con un’ottava, ma pensai che se una avrei potuta tirarla, un seconda, stimolato, m’avrebbe potuto mettere in imbarazzo. E tacqui per prudenza.
Ma non tacque però l’amico che m’accompagnava, il quale, essendo già tardi, intonò una chiara e arguta ottava con cui elogiò, ringraziò e salutò la bella compagnia.